Il respiro della Speranza

Lorena ci racconta la genesi del libro che ha pubblicato insieme a Yazid

Si nasce con i pugni chiusi e si muore con le mani aperte

“Un antico proverbio dice “Si nasce con i pugni chiusi e si muore con le mani aperte” e spesso ci vuole tutta una vita per capire l’insegnamento contenuto in queste parole, tanto che qualcuno muore senza mai aver imparato ad aprire le mani”.

Queste sono alcune parole scritte durante il tempo estivo da Yazid, detenuto algerino che ho avuto come studente l’anno scorso, presso un istituto penitenziario calabrese, e che ho ritrovato al rientro, pronto a consegnarmi dieci nuove pagine scritte. Pagine che si aggiungevano alle tredici consegnatemi durante l’anno precedente.

Ritrovo la sua scrittura ordinata e controllata, che scaturisce da un lavoro meticoloso svolto tra dizionari e appunti improvvisati in cui si mescolano francese, italiano e calabrese (sua terza lingua madre, dopo l’arabo e il francese). Le sue pagine esprimono un dialogo interiore profondo tra il male che desidera rielaborare e redimere e il bene ricevuto che vorrebbe consegnare ai suoi lettori (la sua intenzione è che io lo aiuti a scrivere un libro). L’impatto con la narrazione fitta dei suoi quasi 60 anni di vita, snocciolata tra confessioni, riflessioni, preghiere sussurrate, sogni e progetti per il futuro (a cui poco per volta concede il diritto di cittadinanza) ha una carica emotiva importante, per lui e per me, da smaltire e da orientare opportunamente.

Ma come può nascere il desiderio di raccontarsi alla professoressa di matematica? Sì, perché l’assurdo è che insegno matematica e non sono forse la persona più indicata per raccogliere i suoi racconti franco calabresi e tradurli in un italiano accattivante…

Beh, da una parte non è strano, se crediamo che l’insegnamento non si limiti alla disciplina insegnata ma punti alla crescita e alla maturazione degli allievi, ovunque si trovino e qualunque età abbiano. Tuttavia non nascondo la sorpresa di fronte a tale consegna di fiducia di Yasid e di fronte all’evoluzione che sta vivendo di cui sono testimone: imparare ad aprire le mani, per chiedere aiuto, per consegnarsi e per aiutare!

In generale, la matematica, con la sua specificità, è una disciplina utile per lasciar emergere l’approccio alle cose che ogni studente possiede: frettoloso, superficiale, illogico, ordinato, metodico, perfezionista… In carcere però sperimento quanto la sua potenzialità educativa sia amplificata. Per la maggior parte dei detenuti la matematica è quella disciplina utile per risolvere i problemi economici contingenti: dai conti in rosso, ai mutui da pagare, alle strategie più svariate per affrontare le difficoltà della vita. Mentre li osservo risolvere l’espressione più o meno complessa, mi accorgo di coloro che hanno l’abitudine di non scrivere nulla (quasi a non lasciare traccia dei loro ragionamenti), di coloro che saltano i passaggi per arrivare subito al risultato (dimostrando di essere impazienti e di tenere solo al risultato ottenuto), di coloro che infine “alterano o manipolano” i risultati pur di affermare che hanno ragione. Nel trascorrere dei mesi, ho il tempo di conoscerli e di constatare quanto questo abbia a che fare con il loro modo di prendere la vita.

Per alcuni, svolgere un esercizio difficile diventa occasione per riflettere sul loro modo di affrontare le difficoltà, o per prendere coscienza di come sono abituati ad affrontare un errore: lo guardano in faccia? Lo elaborano? O si stancano e fuggono di fronte alla fatica di ricominciare? Pochissimi chiedono aiuto, cercano un confronto ad un livello più profondo o un appiglio per vedere le vicende della loro vita in modo diverso, per elaborarle, liberarsene e provare a ripartire.

Yazid è uno di questi.

Nel suo caso, tutto è iniziato dal mal di testa che gli faceva venire un’espressione algebrica! Per non “perderlo”, gli ho chiesto di parlarmi dell’Algeria e con occhi fissi al muro (i musulmani non guardano le donne negli occhi), ha iniziato a parlare come un fiume in piena della sua prima vita, a cui poi è seguita la seconda (in Italia). “Sai, ero da tempo che aspettavo di poter dire queste cose a qualcuno”. Beh, nel giro di qualche mese, grazie ad un progetto ideato ad hoc, si è trovato a raccontarle non solo a me, ma anche a qualche compagno di detenzione ed infine ad un pubblico esterno costituito prevalentemente da adolescenti.

Risultato? Gli esterni sono rimasti sbalorditi della profondità di Yazid (diversi si sono commossi) ed io sto rivalutando la potenza della scrittura e dell’autobiografia.

Ciò che più conta però è che le mani si sono aperte.